Dialoghi – La nuova vita della comunità cinese in Indonesia

Ottobre 2025

Per secoli, la diaspora cinese in Indonesia è stata oggetto di pregiudizi e persecuzioni, frutto dell’eredità coloniale olandese. Dopo i massacri del 1998 le cose sono cambiate: le nuove generazioni non definiscono la propria identità solo in base alla loro origine e i giovani indonesiani hanno compreso che le disuguaglianze economiche non sono etniche, ma di classe. “Dialoghi: Confucio e China Files” è una rubrica in collaborazione tra China Files e l’Istituto Confucio dell’Università degli Studi di Milano.

Di Francesco Mattogno

Batavia, capitale delle Indie orientali olandesi, ottobre 1740. Le truppe coloniali olandesi e centinaia di nativi assaltano per settimane le abitazioni della comunità cinese, bruciando e uccidendo tutto ciò che incontrano. È un’operazione organizzata in risposta alle rivolte di migliaia di lavoratori cinesi che nei giorni precedenti si erano ribellati ai grandi proprietari delle industrie locali, avevano occupato gli stabilimenti e avevano ucciso una cinquantina di soldati coloniali. La rappresaglia è feroce, e si stima che una volta terminate le violenze i morti cinesi siano oltre 10 mila: cioè quasi tutta la popolazione cinese di Batavia, oggi Giacarta.

Quello del 1740 è stato il primo pogrom documentato ai danni della comunità cinese nel territorio che, dall’indipendenza del 1949, si chiama Indonesia (yìndùníxīyà, 印度尼西亚). Si ritiene che un notevole numero di cinesi abbia cominciato a emigrare verso l’arcipelago già secoli prima, con spostamenti di massa legati all’ascesa e alla caduta delle varie dinastie imperiali o alle spedizioni di grandi esploratori, come quelle guidate da Zheng He (Zhèng Hé, 郑和; anche conosciuto come Cheng Ho) nel XV secolo.

La presenza di una forte diaspora cinese in Indonesia – come in tutto il Sud-Est asiatico – è dunque la normalità da tempo, ma è solo negli ultimi due decenni che si sono attenuati i pregiudizi e i sospetti che per secoli hanno accompagnato la vita dei “Chindos”, un’abbreviazione che si usa oggi per definire le persone indonesiane di origine cinese. 

Divide et impera

Il vero punto di svolta nei rapporti tra la comunità cinese e i nativi indonesiani è arrivato con la colonizzazione olandese, a partire dal XVII secolo. Seguendo il mantra tipico degli imperi occidentali dell’epoca, i colonizzatori olandesi, classe dominante, elevarono lo status di alcune minoranze (come quella cinese e araba) al di sopra di quello dei nativi, relegati al punto più basso della piramide. 

Alle persone di etnia cinese, a cui era permesso vivere solamente all’interno di quartieri separati dal resto della popolazione, vennero concesse in esclusiva le licenze di qualunque tipo di attività commerciale (dai banchi dei pegni alle sale scommesse), permettendo a molti di arricchirsi. Nonostante la maggioranza dei Chindos restasse povera quanto i nativi, i privilegi riservati a un’élite di cinesi e il loro isolamento sociale resero tutta la comunità un facile capro espiatorio, utile a evitare che il risentimento venisse indirizzato verso i colonizzatori.

Di fatto, come risultato di questa politica, al momento dell’indipendenza dell’Indonesia quasi tutte le principali aziende e attività al dettaglio del paese erano di proprietà cinese. Il padre della nazione indonesiana Sukarno (1945-1965) provò a invertire questa tendenza con il Programma Benteng, una misura pensata per rilasciare licenze commerciali alla popolazione nativa così da favorirne lo sviluppo economico, ma che finì con il rimarcare le differenze etniche e rinfocolare il sentimento anti-cinese.

Con l’ascesa al potere del generale Suharto (1967-1998) si inaugurarono tre decenni di forte repressione e di assimilazione dei Chindos, anche in nome dell’anticomunismo. Se da un lato il governo sfruttò i grandi conglomerati di proprietà cinese per trainare la crescita economica del paese, dall’altro adottò varie politiche discriminatorie a carico della diaspora cinese: l’utilizzo dei nomi in mandarino venne bandito, le scuole di cinese vennero chiuse, e i membri della comunità furono spesso costretti a conversioni o a matrimoni misti (ne abbiamo parlato in questa puntata di Dialoghi).

Secoli di risentimento e strumentalizzazione politica raggiunsero il culmine nel maggio del 1998. Impoveriti dalla crisi finanziaria asiatica, migliaia di indonesiani scesero in strada a protestare contro il governo (Suharto fu poi costretto alle dimissioni) mentre dei gruppi organizzati, su ordine delle forze di sicurezza ai vertici del regime, fomentarono le violenze contro i membri della “ricca” comunità cinese soprattutto a Giacarta, Medan e Solo. Case e negozi dei Chindos vennero dati alle fiamme, sterminando intere famiglie, mentre centinaia di persone furonoaggredite o stuprate. Il bilancio finale fu di oltre 1.000 morti tra i Chindos, con almeno 85 donne della comunità cinese vittime di stupri o molestie.

Una nuova identità

Per i massacri del 1998 non è mai stata fatta giustizia, ma da allora le cose per gli indonesiani di origine cinese sono cambiate. Lo dimostra un dato: oggi non si sa con certezza statistica quanti siano gli indonesiani di etnia cinese. Secondo il censimento del 2010 solo l’1,19% della popolazione ha dichiarato di avere origini cinesi, cioè 2,8 milioni di persone. Si tratta di un valore abbastanza al ribasso rispetto alle stime storiche, per le quali i Chindos hanno sempre oscillato tra il 2,5% e il 5% del totale.

Quello del 2010 è l’ultimo dato ufficiale sulla questione, perché il censimento del 2020 non presentava la possibilità di dichiararsi parte di un gruppo etnico preciso. Da una parte, quindi, le istituzioni hanno smesso di catalogare i cittadini per etnia, dall’altra sempre più indonesiani di origine cinese si sentono indonesiani e basta. 

Se è vero che il dato del 2010 potrebbe risultare “falsato” dalle politiche di assimilazione e dal trauma delle violenze del 1998, che potrebbe aver spinto qualcuno a omettere la propria provenienza, da oltre vent’anni le discriminazioni a carico dei Chindos sono rare e quasi sempre limitate ai social. È ormai insolito che un politico o un leader religioso si esprima in termini sprezzanti nei confronti delle persone con origini cinesi, anche se capita ancora che qualche profilo secondario utilizzi la presunta ricchezza dei Chindos come arma retorica populista (un caso eclatante fu quello contro Ahok, ex governatore di Giacarta cristiano e di etnia cinese, nel 2017). 

Persino l’attuale presidente indonesiano Prabowo Subianto, ex generale di Suharto accusato di aver ordinato i massacri del 1998 (che ora vorrebbe cancellare dai libri di storia), è diventato un fervente appassionato di cultura e filosofia cinese. Dal 2003 il capodanno lunare è festa nazionale in Indonesia e dal 2006 il confucianesimo è tornato a essere ufficialmente riconosciuto come una delle sei religioni ammesse nel paese.

Le sempre più forti relazioni diplomatiche ed economiche tra Giacarta e la Repubblica popolare hanno aiutato – malgrado le ricorrenti tensioni attorno ai flussi di nuovi lavoratori migranti cinesi (xīn yímín, 新移民) della Belt and Road Initiative –, ma molto lo si deve ai cambiamenti interni alla società indonesiana e alla stessa comunità cinese. 

Le nuove generazioni stanno prendendo consapevolezza del fatto che le disuguaglianze economiche non sono etniche, ma di classe, mentre la GenZ di origine cinese ha cominciato a rifiutarel’etichetta di “Chindos”, imposta dall’esterno, e a non usare l’etnia come unico parametro per definire la propria identità. Come riportano alcuni sondaggi, per cancellare del tutto i pregiudizi sulla presunta ricchezza della comunità cinese ci vorrà tempo, ma il processo di integrazione è in fase avanzata.

Come ulteriore conferma, alle proteste dello scorso agosto contro il governo Prabowo hanno partecipato migliaia di ragazzi e ragazze di origine cinese. È stata forse la chiusura simbolica di un percorso lungo secoli: da segregati e bersagli dell’odio etnico, i Chindos sono diventati una parte politicamente attiva della società indonesiana.